La ricerca si propone di studiare il gioco pubblico (ed in particolare il gioco del Lotto, Superenalotto, Totocalcio, Tris) da un punto di vista psicosociale, cioè non patologico: il gioco entro certi limiti è un bisogno umano. L’obiettivo è di formare delle tipologie di giocatori sulla base delle Funzioni del gioco secondo Imbucci (2002). Nella funzione Ludica si gioca per divertimento; la funzione Compensativa del gioco emerge nei periodi di crisi, quando le speranze sociali vengono meno; nella funzione regressiva si è, per utilizzare una saporosa figura etimolgica, giocati dal gioco, il gioco diventa cioè patologico.
Inoltre queste tipologie verrebbero connotate anche sulla base di altri fattori:
– ancoraggi psicologici: Sensation Seeking ( Zuckermann,1984) ; Locus of control (Rotter, 1966); cognizioni irrazionali relative al mondo del gioco.
– ancoraggi sociologici: sesso, età, titolo di studio, professione, reddito.
– emozioni esperite durante il gioco;
– percentuale di reddito speso nel gioco;
– frequenza di gioco;
– modalità di gioco;
– come verrebbe spesa un’ipotetica vincita al gioco.
Lo strumento utilizzato all’uopo è il questionario distribuito ad una platea di 185 giocatori. La metodologia di analisi dei dati è mutuata dalla teoria delle Rappresentazioni Sociali (Doise, 1997). I risultati mostrano il formarsi di quattro tipologie di giocatori; inoltre emergono nuovi princìpi organizzatori delle funzioni del gioco: l’età, l’eccitabilità e superstizione nel gioco.
Curriculum vitae di Daniele Morselli
Lotto, Superenalotto, Totocalcio: giocatori allo specchio
Studi
Laurea in Psicologia
conseguita presso: Università degli Studi di Parma
nell’anno 2003-04
con una votazione di 110 su 110
Diploma di maturità conseguito presso il Istituto tecnico
con votazione 48/60°
Lingue straniere
Inglese parlato e scritto: buono
Conoscenze informatiche ottimo livello
INTRODUZIONE
Videmus nunc per speculum in enigmate,
tunc autem facie ad faciem;
nunc cognosco ex parte,
tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum
(Epistola Beati Pauli Apostoli ad Corinthios Prima 13:12)
Ora vediamo in modo confuso come in uno specchio;
ma allora vedremo faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto,
ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Giocatori allo Specchio
Questa enunciazione paolina gode di un particolare e generale favore, e viene
spesso citata come esempio di come la conoscenza umana sia quanto mai
imperfetta, deformata e persino fuorviante. Ciò che mi preme qui sottolineare
è la presenza della locuzione “per speculum”, giacché proprio la metafora
dello specchio dà il titolo e conferisce un’impronta a questo mio lavoro. Lo
specchio nella letteratura antica è il luogo del pericolo, della deformazione,
dell’ambiguità: un celebre passo dei “Fasti” di Ovidio descrive così Narciso:
“infelix, quod non alter et altera eras” (o tu, infelice, perché non eri né
l’immagine né te stesso), e riassume – nello spazio di un verso – i termini di
quell’originaria contraddizione che è espressa nella scena dell’uomo che si
guarda allo specchio. Tale contraddizione è raccontata dal mito greco con le
gesta di Dionisio (il dio venne sbranato dai Titani nel momento in cui osserva
la sua immagine in uno specchio), Medusa (mirandosi nello scudo di Perseo
rimane vittima del suo stesso maleficio) e Narciso (s’innamora di sé contemplando
la propria immagine riflessa nell’acqua), e riassunta dal mito ebraico
nel tema della visibilità dell’invisibile Volto di Dio attraverso lo specchio, di cui
sopra in San Paolo.
Anche nella Divina Commedia lo specchio rappresenta una metafora privilegiata
(cfr Purg. XV,XXV, XXVII, e Par. XV, e XIX, per citare solo qualche esempio):
nell’ascesa purgatoriale, nel girone dei golosi, Virgilio rende edotto
un inquieto e dubbioso Dante riguardo a come le anime dei golosi dimagriscano
per fame e sete, utilizzando proprio la specchio come strumento latore
di perspicuità:
e se pensassi come, al vostro guizzo,
guizza dentro allo specchio vostra immage,
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
(Purgatorio, XXV,25-27)
Premessa
E come non citare, con un vigoroso balzo in avanti nel tempo, il capolavoro di
Carroll “Alice nel Paese delle meraviglie”, nonché l’opera meno conosciuta,
forse artisticamente meno felice, ma di esso ideale continuazione, ossia
“Trough the glass”?
Lo specchio dunque come luogo dell’ambiguità, ma anche come luogo del
confronto, del mettersi in gioco (e qui perveniamo al cuore del nostro ragionamento);
all’uomo non è dato di vedersi con i propri occhi, e quindi lo specchio
assurge a luogo di elezione perché l’uomo possa uscire da sé, oggettivare
la propria immagine per averne una percezione prima ignota e impensabile.
E’ un bisogno, quello di specchiarsi, incoercibile, come dimostra la vetustà dei
miti più sopra citati.
E, infine, come non pensare a quei settecenteschi Palazzi Reali disseminati
per l’Europa (primo fra tutti quello di Versailles), ove spesso trova una particolare
e pregnante collocazione la cosiddetta “sala degli specchi”, dove l’astante
perde il senso della percezione dei confini dello spazio, e si trova in una “inlusio”,
ossia si vede giocato, spiazzato?
In questo lavoro si parla di gioco, di inlusio(nel senso etimologico del termine: “entrare dentro nel gioco” ), e dunque si cerca di mettere allo
specchio quella realtà con la quale, in questi anni, sono entrato in contatto
nella mia vita lavorativa: con i rischi che lo specchio comporta (deformazioni,
ambiguità), ma con i pregi innegabili che esso adduce (perspicuità, immediatezza).
Con l’attenzione, particolarmente sentita, a non infrangerlo: ché i nostri
giocatori hanno da sempre un’innata superstizione, e non sopporterebbero di
trascorrere sette anni sotto i malaugurati auspici di una sorte avversa.
L’elaborato si struttura in quattro parti. Come si è detto sopra, lo sforzo è stato
quello di abbandonare quella dicotomia, diffusa nella letteratura e nel senso
comune, che contrappone il gioco normale a quello patologico, e che finisce
poi per studiare quest’ultimo a scapito del primo. Si è cercato dunque di studiare
il gioco adulto da una prospettiva psicosociale: il gioco, entro certi limiti,
è un bisogno umano incoercibile.
Giocatori allo Specchio
• Il primo capitolo cerca di offrire un inquadramento generale sul gioco: si
parte da cenni d’antropologia del gioco, per arrivare al tormentato rapporto
tra le Istituzioni e il gioco. Vengono poi illustrati i dati sul mercato
del gioco pubblico in Italia aggiornati al 2004, con particolare attenzione
ai giochi del Lotto, Superenalotto, Totocalcio e Tris, oggetto di questa
ricerca; un ultimo paragrafo è infine dedicato a quando il gioco può
diventare pernicioso, cioè patologico.
• Nel secondo capitolo si compie una sintesi delle teorie psicologiche sul
gioco: dal momento che non esiste ancora una teoria esaustiva, vengono
illustrate le teorie psicodinamiche, comportamentiste e, soprattutto,
quelle cognitiviste. Queste ultime sono quelle che sono state utilizzate
in questa ricerca: il sensation seeking, il locus of control, le cognizioni
irrazionali, i modelli della razionalità limitata, le strategie di pensiero
dei giocatori. Segue un paragrafo dedicato agli aspetti positivi del
gioco, ed uno che concerne le surveys effettuate sulla psicologia del
giocatore che sono più attinenti a questa ricerca.
• Il terzo capitolo è dedicato alla ricerca vera e propria: vengono presentate
le ipotesi e una descrizione dettagliata dello strumento utilizzato
all’uopo: il questionario. Infine, sono illustrati i dati sul campione dei rispondenti.
• Il quarto capitolo riguarda i risultati ottenuti nello studio: mentre la prima
parte li descrive, la seconda cerca, per quanto possibile, di arrivare a
plausibili conclusioni.
Nell’appendice è possibile infine visionare una copia del questionario utilizzato.
CAPITOLO PRIMO
IL GIOCO
CENNI DI ANTROPOLOGIA DEL GIOCO
Nel lontano 1938, nel libro Homo Ludens, l’antropologo J.Huizinga affermava
che il gioco è il regno delle regole: non esiste gioco senza regole. Il gioco è
alterità rispetto al serio e si pone come insula in mezzo all’oceanico fluire del
serio. La riflessione classica ha parlato di insula felice (Huizinga, 1938) alludendo
al gioco come rassicurante luogo di approdo o di insula incerta (Callois,
1958) alludendo ai suoi esiti incerti, non dati a priori. Felice o incerto, il
gioco ha natura insulare; ha un suo spazio e un suo tempo che non coincidono
con lo spazio e il tempo nella vita, sebbene nel primo si collochi e nel secondo
trovi un suo inizio e una sua fine. Il tempo della in-lusio (nell’accezione
etimologica dell’entrare in gioco) dà luogo necessariamente ad una de-lusio,
all’uscire dal gioco. Un’altra caratteristica fondante del gioco, sempre secondo
Huizinga, è quello di essere un’attività improduttiva: non crea né beni né ricchezza,
al massimo li trasferisce; ma, soprattutto, è un’attività libera, cui si
partecipa per scelta.
Rimanendo nell’ambito degli studi classici sul gioco, si arriva alla fine degli
anni Cinquanta, quando Callois (1958) ha tentato una quadripartizione della
classificazione dei giochi che ha, ancor oggi, un’utilità euristica. Tale classificazione
concerne: i giochi di Alea, di Ilinx (vertigine), di Agon (abilità) e di
Mimicry (di maschera). I giochi di alea sono quelli dove tutto è riposto nelle
mani della fortuna: si pensi per esempio al gioco della tombola e al Superenalotto,
dove non è importante l’abilità di chi gioca. I giochi di abilità e quelli di
alea, secondo questa classificazione, appartengono alla stessa dimensione,
ma rappresentano le due polarità estreme ed opposte; essi hanno in comune
l’uguaglianza assoluta del giocatore, che nella realtà è negata agli uomini.
Giocatori allo Specchio
Mentre i giochi di alea implicitamente alludono ad un disvalore della persona,
in quanto la subordinano al caso, quelli di competizione esaltano la competitività
e il valore. Se però nei giochi di agon vi è un avversario da battere, nei
giochi di alea la sfida è col destino, con il fato e, forse, è per tale cagione che
Callois ritiene che i giochi d’azzardo rappresentino i giochi umani per antonomasia.
Mentre gli animali conoscerebbero giochi di competizione, di vertigine
o di maschera, solo l’uomo è in grado di sfidare il destino con i giochi di alea.
Dice infatti l’Autore: “Attendere passivamente un pronunciamento del fato,
rischiare su questo una somma, è un atteggiamento che esige una possibilità
di previsione, di rappresentazione e di speculazione di cui può essere capace
solo un pensiero oggettivo e calcolatore”. Peraltro, anche la stessa etimologia
della parola azzardo riconduce all’alea: il termine az-zahr è il nome di un antico
gioco orientale con tre dadi. Secondo Ladouceur (in Croce e Zerbetto,
2001) è la presenza dell’alea che definisce e qualifica un gioco come d’ azzardo.
Infatti, tre sono i requisiti per cui un gioco si può considerare d’ azzardo:
il giocatore deve scommettere del denaro o oggetti di valore; questa
scommessa, una volta giocata, non può più essere ripresa; l’esito del gioco
dipende dal caso.
Ai giochi di vertigine appartengono tutti i giochi estremi dove il rischio e il pericolo
sovrastano l’abilità: si pensi, per esempio, alla roulette russa. Ai giochi di
maschera appartengono invece tutte quelle attività, individuali o di gruppo,
che consentono l’emergere di energie risposte o frenate: la maschera, proprio
perché copre, rivela. Queste tipologie, secondo l’Autore, non si escludono mutuamente:
si pensi, ad esempio, al gioco del poker, dove è possibile forse rinvenire
tutte e quattro le dimensioni: le carte buone (alea), l’abilità nel giocare
(agon), il bluff (mimicry) e la sensazione di vertigine in talune fasi.
Malinowsky, sociologo funzionalista, sostiene che il gioco assurge ad una
funzione non solo non pericolosa, ma entro certi limiti utile a livello sociale,
ricreando l’uomo, reintegrandolo nella sua piena capacità di lavoro.
Anche Bateson, celeberrimo antropologo, nella sua “teoria del gioco e della
fantasia” sostiene che ogni attività umana può essere ricondotta ad un gioco.
Psicologia del giocatore
Questa importanza del gioco è stata sostenuta da E. Fink (1957) nel suo saggio
“Oasi della gioia”. Egli scrive: “Il gioco rassomiglia a un’oasi di gioia, raggiunta
nel deserto del nostro tendere e della nostra tantalica ricerca. Il gioco ci
rapisce. Giocando siamo per un po’ liberati dall’ingranaggio della vita, come
trasferiti su mondo dove la vita appare più leggera, più aerea, più felice”. Il
gioco si scopre, in tal modo, un’”isola di perfezione” nella quale regna una regola,
rispettata da tutti, che non favorisce né danneggia alcuno.
LE FUNZIONI DEL GIOCO
Secondo Imbucci (1997; 1999; 2002) il gioco assurge a tre importanti funzioni:
ludica, compensativa e regressiva.
Il consumo di gioco è regolato, a livello individuale, dal senso di colpa che
controlla la relazione tra reddito e quantità di spesa superflua compatibile; a
livello collettivo il controllo è invece esercitato dal generalizzato sentimento di
approvazione o riprovazione. In linea generale, il senso di colpa e individuale
e collettivo dovrebbe venire attivato quando si avverte uno spreco ingiustificato;
ma, come si vedrà più avanti, non è sempre così.
Il gioco ha una funzione ludica per una persona quando si gioca per divertirsi,
quando non v’è cioè senso di colpa né individuale né collettivo, si vive in diffusi
momenti di benessere economico, e la quantità di denaro spesa nel gioco è
ragionevole rispetto al proprio reddito.
Per quello che riguarda la seconda funzione, Imbucci sostiene: “La funzione
compensativa emerge attraverso i maggiori consumi di spesa che vengono
constatati nei periodi di crisi; se le speranza sociali vengono meno compensativamente
si fa ricorso alle in-lusioni del gioco. Il risparmio infatti nella fase acuta
delle crisi non è giudicato efficace: il gioco diviene allora un vero e proprio
ammortizzatore delle crisi sociali e si esprime come funzione compensativa
a forte contenuto emotivo”. Nella frase di Totò <<Non piglio nient’ o’saccio
e che n’port io campo sulamente ca a’speranz>> è netta la consapevolezza
che non è la vincita ma la speranza il fine perseguito col gioco. La poesia di
Totò La speranza ritrae un uomo che raggiunge un suo equilibrio esistenziale
grazie ad un patrimonio di speranze, non al possesso di ricchezze materiali. Il
gioco così manifesta la sua importanza per così dire “biologica”, aiuta cioè a
vivere. Quindi, nei periodi di crisi si riduce il senso di colpa collettivo: l’illusione
del gioco può così sostituire la speranza sociale. In questi casi sono stati osservati
maggiori volumi di gioco di basso importo. Inoltre, sempre nei periodi
di crisi, diminuisce il valore della persona perché s’accresce il sentimento di
impotenza; gli uomini si sentono in crisi e così si affidano alla fortuna.
Psicologia del giocatore
Dalla funzione compensativa si può poi passare alla funzione regressiva del
gioco senza rendersene conto, dato che i confini fra le due sono molto labili e
sfumati.
È sempre Imbucci a segnalare alcuni indicatori che manifestano il passaggio
dall’una all’altra funzione:
• prevalenza dei giochi di alea su quelli di abilità, dato che i primi alludono
ad un disvalore della persona, che viene subordinata al caso, rispetto
ai secondi;
• crescita vorticosa e non omogenea del consumo di gioco in presenza
di importanti periodi di crisi economiche e sociali;
• disincanto del mondo e della politica, con la crescita vorticosa dell’ astensionismo,
delle evasioni fiscali e, con un’accentuata incertezza
verso il futuro.
In questi casi si è indotti al gioco da una morale permissiva (indotta in parte
anche dai mass media) e facilmente dall’abitudine si passa alla patologia, alla
coazione a ripetere; il senso di colpa individuale e collettivo è sedato. Nel gioco
patologico l’uomo non gioca ma è giocato dal gioco: ciò che per definizione
è occasione di libertà e altro, di insularità (il gioco appunto), diviene qualcosa
di soverchiante e cogente.
Ma sarebbe sbagliato credere che la patologia abbia un’eziologia esclusivamente
individuale, dato che il consumo di gioco non è innocente e in parte
soggiace anche agli automatismi di mercato. Spetta quindi al Legislatore prevedere
(e provvedere) a che i giochi non abbiano un’induzione eccessiva alla
patologia e alla coazione a ripetere. Dice infatti Imbucci a proposito dell’etica
del gioco : << Gli interessi finanziari dei privati e dello stato meritano attenzione
e rispetto come gli interessi dei consumatori. Solo un’ottica matura e globale
può tener conto della complessità dei contrapposti interessi e abbandonare
antiche e sterili polemiche tra sostenitori e denigratori del gioco. il gioco
è parte ineludibile dei nuovi stili di vita. Infatti crescenti disponibilità e tempo
libero sono ad esso dedicati, e si deve tener conto di questo nuovo contesto.
Occorre un codice di autoregolamentazione del gioco per tutelare gli interessi
dei consumatori, le ragioni del profitto e l’etica sociale.>>
IL GIOCO E LO STATO
Secondo il Codice Penale attualmente in vigore, sono definiti d’azzardo quei
giochi “nei quali si rincorre il fine di lucro, e la vincita o la perdita è quasi interamente
aleatoria”. Quindi, perché il gioco possa dirsi d’azzardo, devono essere
compresenti due elementi essenziali: uno è rappresentato dal fine di lucro
della persona che pratica l’attività di gioco; l’altro, invece, è relativo
all’aleatorietà della vincita o della perdita insita nella natura stessa del gioco.
Aleatori sono quei giochi nei quali il risultato finale dipende in misura prevalente
dal caso o dalla sorte e non dall’abilità o dalla perizia del giocatore.
Secondo la legislazione italiana, gioco d’azzardo deve considerarsi non solo
quello dei casinò, ma pure quello del Lotto e del Superenalotto, delle schedine
basate sul campionato calcistico, e sulle corse ippiche: anche se, come
dimostrato da una ricerca di Lavanco (2001), l’immaginario collettivo non apostrofa
come “azzardosi” i giochi del Lotto, del Superenalotto o del Totocalcio.
Dal punto di vista prettamente giuridico non sono considerati giochi d’azzardo
quelli esercitati con il fine dichiarato di svago o passatempo con gli amici,
quelli di fortuna, quelli che, anche se praticati per fine di lucro, dipendono
dall’abilità e dalla bravura del giocatore. L’ordinamento giuridico considera il
gioco un’attività contraria sia all’ordine pubblico, perché quest’ultimo potrebbe
essere turbato dal comportamento di alcuni giocatori, sia alla morale della
comunità, dato che il vizio del gioco diffonderebbe l’avversione per il lavoro e
il risparmio, e potrebbe generare problemi individuali, familiari e sociali capaci
di sfociare anche in tragedie. Anche la Chiesa Cattolica vieta, per la parte che
le compete, il gioco d’azzardo: l’autorità ecclesiastica si è espressa negativamente
nei riguardi del gioco che ha come fini il lucro, considerandolo peccaminoso,
in quanto il giocatore, scommettendo denaro, lo sottrae alla famiglia a
favore della quale sarebbe obbligato, moralmente, a spenderlo. La Chiesa è
altresì intervenuta per frenare la diffusione del gioco d’azzardo come quando
venne aperto il Casinò di Saint Vincent e quando stava per aprirsi quello di
Taormina (D’Agata, 1994).
Psicologia del giocatore
Inoltre non possono essere sottaciuti i moniti del Cardinal Dionigi Tettamanzi,
che ha recentemente puntato il dito contro il gioco d’azzardo perché rovina le
famiglie dandole in pasto agli usurai, e contro lo Stato, che per sanare il debito
pubblico, non esita a sostenere la legalità delle scommesse.
Il gioco d’azzardo, in Italia, è gestito dallo Stato o da chi per esso, al fine di
controllarne il ludo. Quando è il privato a gestire il gioco, tramite concessione
da parte dello Stato, quest’ultimo controlla, tuttavia, sia gli incassi che la regolare
gestione privata. A questa generalizzata normativa fa eccezione il gioco
clandestino, gestito da privati e senza controllo statale. Ma questo è un gioco
illegale e perseguibile legalmente perché, da un lato, non è né autorizzato né
concesso, dall’altro si configura come reato fiscale, dal momento che si evade
la percentuale dovuta allo Stato.
Infatti, i proventi del gioco confluiscono nel bilancio dello Stato, alla voce Entrate
Speciali, ed hanno costituito fin dai primi anni dell’Unità d’Italia una fonte
irrinunciabile per l’Erario. Si pensi che nel 1905 esse costituivano il cinque per
cento delle entrate, mentre nel non lontano 1974 costituivano il quattro e solo
negli ultimi anni, con il dilatarsi della spesa pubblica, tendono a decrescere.
I proventi del gioco non si confondono con le altre risorse del bilancio statale,
ma concorrono a finanziare progetti d’eccellenza, per esempio la ricerca
scientifica o il recupero delle opere d’arte. In tal modo un’ entrata che potrebbe
risultare discutibile viene trasformata in un circolo virtuoso. Infatti il gioco
non crea ricchezze come il lavoro o il risparmio ma, al massimo, le trasferisce.
Non possiamo infatti trascurare la carica eversiva del gioco, dal momento che,
nel corso di una notte brava, il nobile può perdere tutte le sue ricchezze e il
villano può diventare signore. Non a caso l’etica borghese otto-novecentesca
ha condotto, con uomini illustri come Fortunato e Salvemini, vigorose campagne
contro il gioco. Il gioco dissipa ricchezze -così si sosteneva- distrae dal
lavoro e sottrae spazio al risparmio. Nel 1897 Luigi Nina suggerì ad esempio
un progetto mai arrivato alla discussione in Parlamento: il giocatore poteva
avere accesso alla scommessa solo previo deposito della stessa somma in
banca; alla fine dell’anno avrebbe visto gli emolumenti dell’una e dell’altra
modalità e ne avrebbe tratto le debite conclusioni.
I GIOCHI PUBBLICI IN ITALIA
Il mercato del gioco pubblico, attraverso l’analisi dei suoi consumi, rivela che
l’Italia del 1991 era ancora tutta raccolta attorno alle sue grandi e tradizionali
passioni (il Lotto, il Totocalcio e l’Ippica). Non si erano ancora espresse quelle
modificazioni di costume che lasceranno incisive vestigia: il Totocalcio raccoglieva
il 30% del mercato, il Lotto il 32% e l’Ippica il 28%.
Nel 2001 il percorso del decennio è già riconoscibile: un vasto processo di internazionalizzazione
del gioco apre alle scommesse, alle sale Bingo e alla
formula 101; velocizzazione e gigantismo hanno trasformato la tripartizione
fondata sulle passioni sportive e sulla cultura cabalistica in un sistema bipolare
governato per oltre il 50% dal Lotto e per circa il 20% dal Superenalotto.
L’ippica conserva invece un’insula di irriducibili appassionati.
Attualmente, i giochi che compongono la quasi totalità delle Entrate speciali
dell’erario sono ancora il Lotto e il Superenalotto, seguiti però dalle sale Bingo.
I primi due giochi sono gestiti separatamente dalle due Società concorrenti
che amministrano i giochi per conto del Ministero delle Finanze: la Lottomatica
per il Lotto, la Sisal per il Superenalotto. Altri giochi, come il Totocalcio, il
Totogol, la Tris e la Formula 101 (non illustrata nei grafici sottostanti perché
con una percentuale troppo esigua, lo 0,04%), sono stati dati in concessione
ad entrambe le società. Peraltro, anche il futuro del Lotto e del Superenalotto
sembra proprio andare verso la concessione ad entrambe le Società: aumentando
conseguentemente il numero di punti vendita dei giochi l’erario conta di
vedere accresciute le proprie entrate. I due grafici sottostanti illustrano il mercato
del gioco nel 2003: mentre il primo mostra la quota di mercato posseduta
da ciascun gioco, il secondo evidenzia quanto ogni gioco contribuisce alle entrate erariali.
Psicologia del giocatore
Il mercato del gioco in Italia nel 2003
46%Lotto
14%Superenalotto
23%Scommesse
4%Tris
2%Totocalcio
1% Totogol
8% Bingo
2% Lotterie
Le entrate dell’erario nel 2003 alla voce “giochi“
47% Lotto
31% Superenalotto
6% Scommesse
2% Tris
3% Totocalcio
1% Totogol
7% Bingo
3% Lotterie
N.B. La voce “scommesse” nei due grafici rappresenta l’aggregato delle scommesse ippiche,
sportive, e del terzo settore.
Il Lotto
Si tratta del gioco nazional-popolare più antico e più diffuso in Italia, nonché di
uno dei più complessi: da solo detiene il 46% dell’intero mercato dei giochi e il
47% delle entrate erariali alla voce giochi. Esso affonda le sue radici nella
Genova del Seicento, ove una sorta di “totoministri” fungeva da argomento di
scommessa. Inizialmente le estrazioni si tenevano una/due volte l’anno; poi
mensilmente e, solo in tempi recenti, dal 1997, si è stabilita la tradizionale cadenza
bisettimanale. Si esprime in sorti diversamente retribuite: ambo, terno,
quaterna, cinquina e combinazioni diverse fra queste sorti. È noto che il sistema
premiante è decrescente, favorisce cioè l’estratto e l’ambo, mentre punisce
la quaterna e la cinquina; in questo modo si vuole fare in modo che alcune
migliaia di cinquine non mandino lo Stato sull’orlo della bancarotta. Negli
ultimi anni una crescente comunità di giocatori ha scoperto la remuneratività
del gioco basato sui numeri ritardatari. Statisticamente, un numero ha probabilità
di essere estratto che è pari a quella di tutti gli altri ma, nella storia del
Lotto dall’Unità fino a oggi, si è visto che nessun numero è tardato più di duecentoventi
estrazioni. Questo significa che, avendo un numero che ritarda oltre
le 100 estrazioni e una cifra ragionevole a disposizione, si hanno buone
probabilità di vedere il proprio investimento adeguatamente remunerato. Il
gioco del Lotto si è dunque vieppiù spostato dal gioco basato sulla cabala, sui
sogni, sulle date e sulle coincidenze a quello statistico basato sui numeri ritardatari.
Il primo tipo è quello più tradizionale ed è radicato, sin dalle origini, nel
Sud Italia, mentre il secondo è di tipo speculativo, ed è più utilizzato nel Nord.
I cambiamenti che si stanno profilando nel gioco del Lotto sono: spostamento
di capitali dal Sud, che sembra preferire il gioco tradizionale, al Nord, fautore
di un gioco scientifico e maggiormente remunerativo; maggior pericolo di crollo
finanziario per i giocatori più incauti, che vedono tutti i loro averi dissipati
prima dell’estrazione del numero ritardatario; andamento sinusoidale del volume
di gioco proporzionale al numero di volte che il numero ritardatario manca
all’estrazione.
L’aumento del gioco basato sui numeri ritardatari potrebbe portare con sé il
rischio di minore guadagno per lo Stato, giacché il Lotto è uno dei pochi giochi
in cui la percentuale del volume totale di gioco che finisce nelle casse
all’erario è variabile, come si desume dal grafico che segue.
L o t t o : p e r c e n t u a l e d e l
g i o c a t o a n d a t a a l l ‘ e r a r i o
percentuale–anno
2. 5-2 0 0 1-2 0 0 3
3.0-1 9 9 3-1 9 9 5-1 9 9 7
3. 5-1 9 9 9
Secondo taluni (Imbucci, 2002) nei prossimi anni assisteremo per questo a un
cambiamento del sistema premiante a favore dell’Erario. Secondo altri, invece
(Fabio Felici, da “Il Tempo” del 01/04/2004, pag. 4), è stata proprio l’assenza
di numeri “centenari” del suddetto gioco che l’anno scorso ha determinato una
flessione netta degli introiti dell’erario rispetto il 2002. Il grafico seguente illustra
il volume totale di gioco e le entrate erariali del Lotto dal 1993 al 2003.
Lotto : Entrate Erariali sul totale di gioco
Anno-milioni di euro
1993-2.000
1995-2.000
1997-4.000
1998-6000
1999-8.000 10.000
2001–6.000 10.000
2003-6.000 10.000